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I SEGRETI DELLA BANDA SAVI. PERMESSI PREMIO E LIBERTA’ PER I KILLER

Alcuni aspetti mai chiariti della tragica vicenda. I parenti delle vittime invocano giustizia.

Alle 8 e 10 del 24 maggio 1994, il direttore della Cassa di Risparmio di Pesaro, Ubaldo Paci, aveva appena aperto la porta della sua filiale per cominciare una normale giornata di lavoro quando qualcuno gli spara alla tempia. L’assassino ha il dubbio che non sia ancora morto, punta la Beretta contro l’uomo a terra, prende la mira ed esplode un secondo colpo alla testa. Adesso il direttore è morto davvero, sotto gli occhi di tutti. Ad assistere alla scena, infatti, ci sono centinaia di persone terrorizzate, fra cui molti studenti in procinto di andare a scuola. Il killer, pistola alla mano, con una calma che appare innaturale, sale su una Fiat Uno dove lo attende un complice. È l’ultima azione criminale della banda della Uno bianca.

Quella macchina, la Fiat Uno, uno dei modelli di maggior successo della casa automobilistica torinese con oltre nove milioni di esemplari prodotti, è l’automobile più comune nell‘Italia a cavallo tra gli anni ottanta e novanta. Negli anni degli Yuppie è l’auto della classe media, diffusissima e per questo anonima, senza tanti fronzoli e per questo facile da rubare. Queste caratteristiche fecero sì che una pericolosa organizzazione criminale scelse di utilizzarla nelle sue azioni. L’organizzazione, nota, proprio per questo particolare, come la banda della Uno bianca lasciò una scia indelebile nell’Italia che risentiva dei grandi fermenti internazionali. Le furono attribuiti, infatti, ben 103 crimini, soprattutto rapine a mano armata, 24 omicidi e il ferimento di almeno altre cento persone, tra il 1987 e il 1994.

La sconcertante “tranquillità e determinazione” dell’assassino di Ubaldo Paci era dovuta al fatto che la maggior parte dei componenti della cosca criminale erano poliziotti, alcuni addirittura operatori della centrale operativa, che conoscevano esattamente sia i tempi di reazione dei colleghi che la loro posizione. Sapevano perfettamente quando, come e in quanto tempo agire. L’opinione pubblica fu segnata profondamente da quest’ultima circostanza e nell’immaginario collettivo divenne simbolo di una corruzione diffusa in tutte le istituzioni dello Stato, d’altronde erano anche gli anni di mani pulite. Tale percezione non è cambiata nemmeno dopo più di venticinque anni da quell’ultimo atto criminale, anche perché alcuni membri dell’organizzazione criminale sono già in libertà.

Il primo bandito a cui furono strette le manette ai polsi da due bravi colleghi, era stato Roberto Savi, assistente capo della Questura di Bologna. Condannato all’ergastolo nel 1996 insieme ai due fratelli Fabio e Alberto, nel 2006 ha chiesto la grazia all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, salvo poi ritirare la richiesta a seguito del parere sfavorevole di Vito Zincani, già procuratoUna biancare generale di Bologna. Attualmente si trova associato presso il carcere di Monza.

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Fabio Savi, l’unico dei tre fratelli a non essere riuscito ad indossare la divisa nonostante ne avesse l’ambizione, dopo la condanna è stato trasferito in diverse strutture penitenziarie nel centro-nord. Mentre era rinchiuso nel carcere di Voghera, nel 2009, ha iniziato uno sciopero della fame durato circa un mese per convincere le autorità a trasferirlo in una casa circondariale più vicina alla sua famiglia. Così all’inizio del 2010 è stato trasferito nel carcere di massima sicurezza di Spoleto. Nel 2014 ha tentato di vedersi riconosciuto il diritto di usufruire, a posteriori, del rito abbreviato, tramutando così la pena dall’ergastolo a 30 anni. L’istanza si richiamava a una sentenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, definita sentenza ‘Scoppola’ del 2009. Conteggiando gli sconti per la buona condotta e per gli indulti, all’epoca della richiesta e in caso di accoglimento dell’istanza, avrebbe già scontato la sua pena ma la Corte di Assise di Bologna ebbe a respingere la richiesta e attualmente Savi si trova ancora dietro le sbarre.

Il minore dei fratelli Savi, Alberto, sconta la pena dell’ergastolo dal 26 novembre 1994. Attualmente rinchiuso nel carcere di Padova, ha finora usufruito di tre permessi premio. Il primo di dodici ore nel 2017 per incontrare la madre in gravissime condizioni di salute, il secondo di tre giorni e mezzo nel 2018 per le vacanze pasquali e il terzo nel 2019 per le vacanze natalizie.

Un altro poliziotto, collega e amico di Roberto Savi, Pietro Gugliotta era stato condannato a diciotto anni di reclusione perché, pur facendo parte del gruppo, non aveva partecipato agli omicidi ma solo alle rapine. Doveva rimanere in galera fino al 2012 ma è stato scarcerato quattro anni prima, nel 2008, grazie all’indulto e alla legge Gozzini.

L’agente scelto presso la sezione della Polizia Stradale di Cesena, Luca Vallicelli, è sempre stato considerato un membro minore della banda. Vallicelli aveva partecipato solo alle prime rapine, quelle che si erano consumate senza spargimento di sangue. È l’unico ad aver patteggiato ottenendo uno sconto di pena pari a tre anni e otto mesi ed è attualmente un uomo libero.

La vicenda giudiziaria tra quelle della banda della Uno bianca che ha destato più interesse è sicuramente quella di Marino Occhipinti. Anche lui agente della Mobile felsinea, aveva preso parte ad un assalto contro un furgone della Coop di Casalecchio di Reno, durante il quale una guardia giurata veniva colpita da una scarica di mitra. Per questo tragico evento l’ex poliziotto era condannato all’ergastolo. L’11 gennaio 2012, però, ad Occhipinti veniva concesso il regime di semilibertà. Il suo pentimento, secondo il Tribunale di sorveglianza, era stato considerato autentico e Occhipinti, non più ritenuto socialmente pericoloso, si è visto aprire le porte del carcere il 2 luglio del 2018 provocando, giustamente, dure reazioni e aspre polemiche da parte dell’associazione dei parenti delle Vittime della banda. Non sono improbabili altre sgradite sorprese.

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